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(Vom) Lo dico in apertura. Questo disco sarà malvisto da buona parte dei rednecks che si coagulano attorno alla supposta “scena garage-punkâ€.
Siamo solo a metà gennaio e l’opera dei Dirtbombs si accaparra, quantomeno per lucidità archeologica e spavalderia, più di un podio. Chi segue sin dagli esordi Mick Collins, sa che il ragazzone non si è mai adagiato sugli allori, sporcandosi costantemente le mani con blues, punk, jazz, gospel, noise, funk, soul, pop e via enumerando. Pur con tutti gli stravolgimenti del caso, le differenti bands e direzioni sonore, Mick continua a dimenarsi nella stessa discarica detroitiana immortalata in un video dei Gories (costato la bellezza di $20). Del beat non butta via nulla, tantomeno della cultura musicale della sua città natale, e l’ultima sua opera mette in risalto quest’aspetto sin dalla cover art: un’insegna che è l’emblema del marciume di una città e dei suoni che produce, del suo sfacelo economico ma anche dello humour indispensabile per rileggerne il passato. Non per niente questo è un party album!
Dieci anni fa con “Ultraglide in black†i Dirtbombs omaggiarono la black music, dai Parliaments a Phil Lynott; ora l’operazione si fa ancor più concettuale, poiché sotto i ferri finiscono alcuni dei migliori scampoli dell’era post-disco di Detroit. E con disco, intendo proprio DISCO, quella con la mirrorball in mezzo alla sala. Synth-dance, house, techno ed electro sono i riferimenti sonori che in questi solchi vengono trasfigurati in un vortice che parte dal Michigan per atterrare in terra krauta. Loops & drones, chiamateli come volete. Patterns, in fin dei conti, acidi, danzabili, alienanti, dipende dalla traccia in cui incappate. Con “Good life†degli Inner City e “Strings Of Life†di Derrick Mays si raggiunge l’apice del dancefloor, tanto che non oso immaginare i litri di sudore che si verseranno durante il tour di questo album, manco fossimo sulla pista del mitologico The Scene.
Ad ogni modo, come era lecito aspettarsi, in questo “Party store†gli articoli esposti sono variegati, tanto che la traccia 6 è una suite/mantra di 20 minuti che fa rivivere “Bug in the bass bin†dell’Innerzone Orchestra , agghindando l’originale funk tribale con rumorismi arkestrali, con lo stesso Carl Craig addetto al synth-programming.
Sia che vadano attorno a perle gelide come Cybotron con il loro consueto armamentario - doppia batteria, of course, e molte parentele con la foresta nera degli A-Frames  - , sia che si abbandonino a sperimentazioni con pads elettronici e pedali assortiti, il risultato rimane stupefacente. E chissà che giunti alla fine del lato F non ci si renda conto che l’anima e le pulsioni sono comuni, seppur veicolate attraverso linguaggi differenti. “Humanize something that is without error”, ecco quel che è.
N.B. Merita l’acquisto anche solo per l’adesivo appiccicato nell’edizione triplo 12″.